Forestbeat | La necromassa
Nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sono state localizzate le faggete più antiche d’Europa, candidate a diventare Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Noi vogliamo raccontarvi la storia di questo ecosistema così complesso e ricco di vita.
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La percezione generale che si ha di una faggeta “tipo” è quella di una distesa di tronchi alti e ben dritti, tutti pressoché uguali per dimensioni e struttura; alla base di questi fusti grigio-argento si immagina poi una vasta distesa marrone-rossiccia di foglie morte che, se non fosse per pochi rami caduti e qualche piantina, apparirebbe di solito bella pulita. In effetti, senza assistere a grandi variazioni di sorta dalla Scandinavia fino al Mediterraneo, questa è solitamente la prima immagine che viene in mente pensando alle faggete europee, le quali possono colpire l’immaginazione per la loro graficità e l’aspetto ordinato. Tuttavia, il vero potenziale biologico di una foresta di faggi si discosta assai da questa visione asettica. A differenza delle faggete gestite o sfruttate, che solitamente presentano una certa uniformità nelle dimensioni ed età degli alberi, le foreste vetuste sono molto più “disordinate” e rivelano immediatamente una loro maggiore complessità strutturale.
Nelle faggete vetuste del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, ad esempio, sono presenti alberi di diverse generazioni e stadi di sviluppo, che riescono pertanto a compiere tutto il loro ciclo vitale. Qui troviamo piante che raggiungono l’età massima conosciuta per la specie Fagus sylvatica e sovente anche dimensioni ragguardevoli. Questi faggi tuttavia hanno di rado un portamento regolare, spesso infatti sono contorti, piegati o deformati; le loro corteccie rugose e fessurate. Oltre agli alberi ancora in vita, che spesso possono comunque presentare parti del tronco o dei rami spezzate, ci sono tronconi marcescenti ancora in piedi e alberi morti che giacciono a terra. E gli spazi lasciati vacanti dai patriarchi caduti al terreno consentono la cosidetta rinnovazione, ovvero la crescita di piantine giovani che finalmente vengono raggiunte dall’irradiazione solare.
Queste foreste sono quindi dei sistemi dinamici e complessi in cui le piante crescono, si riproducono, competono tra loro e muoiono naturalmente: ecosistemi al massimo grado di naturalità. Esse si avvicinano per struttura e processi alle foreste primigenie e sono luoghi dove l’impatto umano (in particolare il taglio e il prelievo degli alberi), se mai c’è stato, è stato assente per diverse decine di anni e dove, soprattutto, il legno morto non viene toccato o rimosso.

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A differenza delle faggete gestite o sfruttate, le foreste vetuste sono molto più “disordinate” e rivelano una maggiore complessità strutturale

Nel particolare, è proprio questa abbondanza di necromassa legnosa, ovvero la porzione morta e in decomposizione di un albero, a innescare diversi processi ecologici che favoriscono l’insediamento e la vita di una notevole varietà di organismi e che sono poi alla base delle dinamiche degli ecosistemi forestali temperati. Innanzitutto, la presenza di tronchi e legno morti lasciati sul terreno previene l’erosione del suolo e consente invece l’accumulo di lettiera nella foresta. La decomposizione di una pianta da parte di microrganismi, funghi e invertebrati comporta inoltre un lento rilascio dei nutrienti, soprattutto azoto, presenti in essa e ciò contribuisce al loro riciclo e, in ultimo, alla fertilità del suolo stesso. Al contrario, tutto il carbonio accumulato all’interno di una pianta durante la sua vita rimane intrappolato nelle cellule di legno morto e ciò evita che esso venga liberato nell’atmosfera e vada così a contribuire al riscaldamento globale. Gli alberi morti in piedi, i tronchi caduti al terreno e i ceppi forniscono anche cibo e rifugio a centinaia di specie diverse. C’è chi nidifica nelle loro cavità e chi si nutre della materia legnosa in decomposizione; chi vive a sua volta nutrendosi dei parassiti del legno e chi costruisce la propria tana tra le radici di un tronco marcescente. Anche i resti di alberi a terra diventano un habitat importante per muschi, licheni, invertebrati e microrganismi che concorrono alla decomposizione del legno e all’arricchimento dell’humus, nonché un substrato fertile per la crescita di nuove piantine. Le relazioni tra gli alberi e gli altri organismi sono moltissime e a volta esclusive. È proprio il caso di dire che, dopo la morte, gli alberi di una foresta vivono una seconda (e apparentemente piuttosto movimentata!) vita.
Ma come muore un albero vetusto? Come in una sequenza cinematografica, proviamo a ricostruire la serie di eventi secondo cui avverrebbe la morte naturale di un grande albero secolare e infine la sua completa decomposizione.

Un albero della faggeta di rado muore di “vecchiaia”, ma molto più spesso per cause esterne. Ciononostante è pur vero che con il passare dei secoli tutte le piante vanno incontro ad un lento, ma inesorabile deperimento.

Anche se di rado un albero della faggeta muore di “vecchiaia”, ma molto più spesso per cause esterne, è pur vero che con il passare dei secoli tutte le piante vanno incontro ad un lento, ma inesorabile deperimento. Alcuni rami si seccano, la corona smette di crescere in altezza ma si dirada e nel fusto si formano tumori o cavità, o il legno stesso può andare incontro a marcescenza. Con il tempo anche la corteccia, l’impenetrabile “corazza” del faggio, cede lentamente all’avanzata dei parassiti, i funghi su tutti. Si tratta di decine di specie diverse che cercano di penetrare all’interno del fusto con il proprio micelio, per nutrirsi di legno e sostanze nutritive. Tra questi funghi parassiti ce n’è uno molto evidente e diffuso nelle faggete vetuste appenniniche: Fomes fomentarius ha un corpo fruttifero dalla forma che ricorda uno zoccolo di cavallo. Talvolta decine di queste “mensole” sembrano decorare gli alberi più grandi della foresta. Questo fungo è un serio patogeno del faggio e ne causa la marcescenza del legno. Con il tempo gli alberi infestati da Fomes muoiono e crollano a terra, ma il fungo continua a vivere per lungo tempo, trasformandosi da organismo parassita a decompositore.

I funghi del genere Fomes sono patogeni del faggio, che causano la marcescenza del legno. Con il tempo gli alberi infestati muoiono e crollano a terra, ma i funghi continuano a vivere per lungo tempo, trasformandosi da parassiti a decompositori.

Come abbiamo appena visto, l’infestazione dei funghi può rendere il legno più morbido di quello sano e quindi favorire ulteriormente l’insediamento di altri parassiti. Oltre ai funghi e a innumerevoli microrganismi, anche diverse specie animali possono incidere negativamente sulla resistenza strutturale dell’albero e quindi, in ultimo, sulla sua sopravvivenza. Si tratta soprattutto di insetti xilofagi, come ad esempio coleotteri delle famiglie Buprestidi, Bostrichidi e Scolitidi, le cui larve, dopo la schiusa dalle uova deposte dagli adulti sulla corteccia di un albero e prima di riemergere all’esterno, si nutrono del cambio scavando lunghe gallerie subito sotto quest’ultima. Ma questi sono solo alcuni dei primi “inquilini” di un vecchio albero: a seconda dello stato di deperimento di una pianta e quindi di penetrabilità del suo tronco, si assiste infatti a una lunga successione di vari gruppi di coleotteri che la colonizzano.

Le larve degli insetti xilofagi, come ad esempio coleotteri delle famiglie Buprestidi, Bostrichidi e Scolitidi, prima di raggiungere la metamorfosi si nutrono del cambio di un albero scavando lunghe gallerie subito sotto la corteccia.

Talvolta le infestazioni di questi insetti sono così ingenti, che la corteccia di una pianta inizia a delaminarsi in grosse scaglie, il tronco non viene più protetto, subendo a sua volta l’attacco di altri organismi parassiti e l’albero si avvicina rapidamente alla morte. Le larve di questi parassiti possono altresì divenire preda di altri animali. Ad esempio, vespe della famiglia degli Icneumonidi, che depongono le loro uova all’interno di queste larve stesse per permettere alla prole di nutrirsene dopo la schiusa, o uccelli come i picchi, che le ricercano facendo saltare via le scaglie di corteccia morta o scavando all’interno del legno marcescente con il loro becco appuntito. Così facendo questi ultimi possono contribuire da una parte al controllo numerico di questi invertebrati e, dall’altra, anche a accelerare la degradazione del legno e l’insediamento di altri esseri viventi al suo interno. Alcune specie di picidi, come il raro picchio dorsobianco di Lilford, Picoides leucotos lilfordi, endemico delle faggete appenniniche, sono talmente specializzate nel nutrirsi delle larve di questi coleotteri, da dipendere totalmente dalla presenza di alberi morti per la propria sopravvivenza.

Alcune specie di picidi, come il raro picchio dorsobianco di Lilford, Picoides leucotos lilfordi, endemico delle faggete appenniniche, sono talmente specializzate nel nutrirsi delle larve di questi coleotteri, da dipendere totalmente dalla presenza di alberi morti per la propria sopravvivenza.

Indebolito dai parassiti, un faggio secolare può spezzarsi sotto il peso della neve invernale o per la scarica di un fulmine, soccombere alla siccità o ai venti di una tempesta. I faggi spezzati che rimangono in piedi, in gergo snag, rappresentano uno degli elementi che maggiormente catalizzano la biodiversità di una foresta.

Rispetto ai tronchi caduti al terreno, le piante morte in piedi o le parti marcescenti di quelle ancora viventi godono di una maggiore esposizione all’irradiazione solare anche in inverno e si decompongono più lentamente probabilmente grazie alla presenza delle radici. Ciò rende queste piante insostituibili anche per altre specie di insetti saproxilici, ovvero quelle che si nutrono esclusivamante di legno in decomposizione durante la lunga fase larvale della propria esistenza. Tra queste troviamo due coleotteri speciali che sono divenuti molto rari in gran parte del loro areale, poiché legati indissolubilmente alle foreste mature e non sfruttate. Si tratta del bellissimo cerambice del faggio, Rosalia alpina, in cui l’adulto è caratterizatto da lunghe antenne e uno splendido colore azzurro metallico bandeggiato di nero, e dello scarabeo eremita, Osmoderma eremita, dal corpo tozzo e color bronzo. Quest’ultimo è probabilmente uno degli abitanti più elusivi e meno conosciuti delle faggete del Parco. Il nome “eremita” già dice tutto: esso vive in numeri bassissimi nelle cavità dei tronchi dei grandi alberi vetusti. Durante i mesi estivi, i maschi di questo coleottero color bronzo attirano gli individui dell’altro sesso producendo un feromone dall’odore di frutta. Dopo l’accoppiamento, le femmine depongono le uova nelle cavità degli alberi, dove le larve vivono un paio d anni nutrendosi dei detriti legnosi e delle parti marcescenti del tronco. Gli adulti emergono da un bozzolo solitamente al terzo anno, esclusivamente per accoppiarsi e infine morire dopo circa un mese.

Il coleottero Osmoderma eremita è probabilmente uno degli abitanti più elusivi e meno conosciuti delle faggete del PNALM e il suo nome (“eremita”) già dice tutto: esso vive in numeri bassissimi nelle cavità dei tronchi dei grandi alberi vetusti.

Con il tempo anche questi snag finiscono per degradarsi, spezzarsi ulteriormente e ridursi a ceppi, detti stump, alti poche decine di centimetri al di sopra del terreno. Come dei colorati vasi da giardino, anche queste vestigia del grande albero sono pieni di vita e colore. Giovani piantine fiorite di Geranium crescono nelle fessure del legno marcescente; in cima al ceppo uno scricciolo Troglodytes troglodytes difende cantando il proprio regno in miniatura e, nelle giornate piovose d’autunno, una timida salamandra pezzata Salamandra s. gigliolii esce allo scoperto dal suo rifugio buio e umido.

In cima al ceppo di un faggio, stump, uno scricciolo Troglodytes troglodytes difende cantando il proprio regno in miniatura

In cima al ceppo di un faggio, stump, uno scricciolo Troglodytes troglodytes difende cantando il proprio regno in miniatura

Torniamo ora a quella parte del grande faggio spezzata e caduta al terreno, che avevamo temporaneamente lasciato da parte qualche paragrafo indietro. I tronchi morti che giacciono al suolo hanno il nome tecnico di log e rappresentano un ulteriore microhabitat all’interno della foresta. Meno esposti al sole e alle intemperie rispetto alle piante morte in piedi, come visto precedentemente, essi si decompongono più rapidamente di esse e secondo una progressione ben definita. La chioma del grande albero caduta a terra dapprima perde i rami più sottili e poi quelli sempre più grandi. Successivamente, la corteccia inizia a staccarsi in grossi frammenti, che diventano via via più piccoli, fino a lasciare completamente “nudo” il legno. Il log a questo punto inizia lentamente a perdere la sua forma e a degradarsi progressivamente, finché al terreno non rimangono che detriti legnosi sparsi, dalla consistenza simile a quella di una torta bagnata. Allo stesso modo di quanto avviene per gli alberi in piedi, tutta questa serie di eventi di decadimento e decomposizione vede una lunga successione di agenti che rivestono ciascuno un ruolo diverso. I funghi e gli insetti, coleotteri e ditteri su tutti, ancora una volta la fanno da padroni, ma ad essi si affiancano ora anche altri attori secondari, che lavorano maggiormente “nell’ombra”. Muffe, lumache e chiocciole, millepiedi e porcellini di terra, lombrichi e collemboli penetrano nei detriti legnosi e li consumano, rendendoli via via più minuti. E ciò fino alla decomposizione completa e al rilascio nel terreno dei nutrienti presenti nella pianta e il loro completo riciclo nella lettiera forestale. D’altronde, non è un caso che proprio attorno a un vecchio log decomposto crescano moltissime piante. E se un tronco dovesse essere particolarmente tenace e resistere troppo a lungo all’azione tutti questi decompositori? Ci penserebbe allora un grosso orso bruno marsicano in cerca di larve a farlo a pezzi con le sue potenti zampate!

L’abbondanza di legno morto e in decomposizione permette che si inneschino diversi processi ecologici che a loro volta favoriscono l’insediamento e la vita di una notevole varietà di organismi.

Lungi dall’essere un sistema “disordinato”, la faggeta vetusta è invece un mondo complesso e altamente dinamico; le relazioni tra le diverse specie che la caratterizzano sono innumerevoli e sorprendenti. Ne sappiamo ancora troppo poco per permetterci di interferire con questi processi. Dovremmo essere custodi rispettosi delle nostre foreste e, invece di cercare a ogni costo di gestirle, forse fare un passo indietro e soffermarci umilmente ad ammirare il trionfo della vita che si rigenera costantemente.

Dovremmo essere custodi rispettosi delle nostre foreste e, invece di cercare a ogni costo di gestirle, forse fare un passo indietro e soffermarci umilmente ad ammirare il trionfo della vita che si rigenera costantemente.

Dovremmo essere custodi rispettosi delle nostre foreste e, invece di cercare a ogni costo di gestirle, forse fare un passo indietro e soffermarci umilmente ad ammirare il trionfo della vita che si rigenera costantemente.

© Bruno D’Amicis / Umberto Esposito 2013-2016 – www.silva.pictures

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